Ero una ragazzina di undici anni e vivevo a Napoli, zona ferrovia, con la mia famiglia. Eravamo cinque fratelli, tre femmine e due maschi, orfani di madre e con il padre sposato a una matrigna degna di quella favola di Cenerentola. La miseria era tanta che anche i topi che giravano nella dispensa “se ne uscivano con le lacrime agli occhi”. Ero appena uscita dal collegio, dove anche lì si faceva la fame e non si era trattati meglio. La città portava ancora i segni dei bombardamenti (la guerra era finita da due anni), non c’era lavoro e mettere insieme un pranzo o una cena era un’avventura. Papà, un giorno, mi si avvicinò e con fare sbrigativo mi disse che c’era bisogno di soldi e che la mia bella treccia mora era un lusso che avrebbe fruttato pranzo e cena per alcuni giorni. E così, con il capo appoggiato alla tavola, papà recise la treccia usando un “laccia lardo” (coltello con una lama grande, simile a una mannaia). Non avevo più lacrime e nei giorni seguenti quando passavo davanti al piccolo specchio appeso al muro della stanza che fungeva da appartamento, mi vedevo così brutta che non mi riconoscevo.

 

Melodia di Rita, ottobre 2010

 

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